Gentile Direttore,

la lettera aperta firmata in queste ore da cittadine e cittadini, da lavoratori, da personalità che hanno ricoperto ruoli istituzionali importanti, non è per me un semplice contributo al dibattito: è un fatto politico rilevante. Dice, in modo esplicito, che in Basilicata esiste ancora un pezzo di società che non si rassegna allo sfaldamento del rapporto tra politica e comunità, tra istituzioni e vita reale delle persone, tra governo e bene comune.

Per prendere sul serio quell’appello bisogna evitare due rischi: la retorica consolatoria e il riformismo di facciata. Non è il momento di alzare la torre, ma di allargare la piazza. Non servono nuove declinazioni del già noto, ma un lavoro comune per aprire un ciclo diverso, più largo, più esigente nelle domande e concreto nelle risposte.

Per anni ci siamo raccontati che la Basilicata fosse una piccola eccezione positiva nel Mezzogiorno. Oggi non è più così. La regione non è ai margini della crisi italiana: ne è un concentrato. Crisi industriale, declino demografico, impoverimento del lavoro, collasso della sanità territoriale, isolamento infrastrutturale, dipendenza energetica non governata: sono tutti segnali di una modernizzazione incompiuta, che non regge più l’urto di un mondo trasformato.

Nel frattempo sono cambiati i protagonisti e gli equilibri globali: nuovi poteri economici sovranazionali condizionano le democrazie, le piattaforme digitali ridisegnano relazioni e conflitti, la crisi climatica costringe a ripensare l’idea stessa di sviluppo. E in un mondo così interdipendente, ciò che accade a Shanghai incide immediatamente sulla vita a Melfi: nelle scelte industriali, nelle catene del valore, nelle prospettive del lavoro. Dentro questo scenario, la politica lucana è apparsa spesso ripiegata, prigioniera di logiche di breve periodo, incapace di leggere la profondità dei processi. La destra che oggi governa la Regione non ha messo in campo un progetto: ha occupato spazi, distribuito posizioni, amministrato rendite. Ma sarebbe troppo comodo fermarsi qui. La distanza tra società e politica viene da lontano, e per parlare di alternativa abbiamo il dovere di riconoscerlo.

Se vogliamo che il campo dell’alternativa non sia uno slogan vuoto, occorre ripartire da una domanda semplice e durissima: a che cosa serve oggi la politica in Basilicata? Se serve solo a gestire il presente, la sfiducia dei lucani è più che comprensibile. Se invece torna a essere il luogo in cui si prova a costruire una direzione, allora la discussione che si è aperta può diventare un inizio.

Per farlo, abbiamo bisogno di una bussola chiara. In punta di piedi provo a indicarla attraverso alcune parole chiave che, a mio avviso, possono tenere insieme il senso della lettera aperta e le necessità di un nuovo ciclo di impegno.

Innovazione. La Basilicata è entrata tardi nella modernità e rischia di uscirne presto. L’industria dell’auto, il mobile imbottito, il polo del salotto, l’agricoltura di qualità, il turismo, l’economia della conoscenza: nulla di tutto questo può reggere se la Regione non assume una vera politica industriale e di sviluppo. Innovazione non significa solo tecnologie, ma scelte chiare: usare le risorse pubbliche per creare lavoro buono, per sostenere filiere territoriali, per collegare università, ricerca, imprese, territori. L’alternativa si misura su questo: essere capaci di immaginare e costruire un’economia che tenga nel tempo.

Competenza. Una regione piccola deve saper valorizzare fino in fondo le sue energie migliori. Oggi molti giovani formati scelgono di costruire il proprio percorso altrove, mentre il nostro sistema pubblico e produttivo fatica ad attrarre e trattenere professionalità che potrebbero rafforzarlo. Mettere al centro la competenza significa rendere la Basilicata un contesto in cui valga la pena restare e contribuire: ambienti di lavoro capaci di riconoscere il merito, percorsi reali di formazione continua, un rapporto più stretto tra scuola, università e territorio. Significa, soprattutto, affermare che l’accesso ai ruoli pubblici non è un premio di appartenenza, ma un servizio alla comunità.

Inclusione. In questa prospettiva, la legalità deve essere l’architrave dell’azione pubblica: non un adempimento formale, ma il principio che orienta le scelte, misura la qualità delle istituzioni e fonda il patto di fiducia tra cittadini e politica. La Basilicata ha retto meglio di altri territori alla penetrazione delle mafie anche grazie a un tessuto sociale ancora denso, fatto di relazioni, mutualismo, prossimità. Questo capitale sociale oggi è sotto stress: la povertà cresce, le disuguaglianze si allargano, intere aree interne rischiano l’abbandono. Un campo di alternativa deve misurarsi su un’idea di welfare che non sia residuale: scuola, sanità, servizi alla persona, politiche per l’infanzia e per gli anziani, integrazione dei nuovi cittadini, sostegno alla disabilità. L’inclusione non è una parola gentile: è la condizione per tenere insieme una comunità.

Connessione. Geografia e demografia, in Basilicata, non sono un dettaglio: sono la questione politica di fondo. Pochi abitanti, tanti comuni, un territorio vasto e fragile. Continuare a leggere ogni campanile come un mondo a sé significa condannare la regione all’irrilevanza. Connessione vuol dire unire, non sommare: unioni di comuni reali e non di carta, pianificazione sovracomunale, trasporti che funzionino, infrastrutture digitali, rapporto organico con i sistemi urbani vicini. Senza connessione non c’è sviluppo, e nemmeno democrazia effettiva.

Sostenibilità. Acqua, suolo, paesaggio, energia: la Basilicata vive su un patrimonio di beni comuni che altri territori hanno già consumato. Ma queste risorse non possono essere la base di una rendita per pochi: devono diventare il perno di una transizione ecologica giusta. Questo significa rinegoziare il rapporto tra estrazioni e territorio, usare le royalties per liberarsi dalla dipendenza dal petrolio, investire davvero in rinnovabili diffuse, in efficienza energetica, in filiere verdi. Non c’è alternativa credibile che non metta al centro la giustizia ambientale.

Politica. La parola che tiene insieme tutte le altre è proprio questa: politica. Non come tecnica, non come occupazione di potere, ma come capacità di sintesi, di visione, di scelta. Riscoprire la politica significa accettare che i conflitti esistono e vanno rappresentati, non rimossi; che le decisioni vanno spiegate e condivise, non soltanto comunicate, che il rapporto con la società non può esaurirsi nel giorno del voto. Significa, soprattutto, riconoscere che senza partecipazione non c’è governo che regga.

La lettera aperta segnala con onestà i limiti di un modello di relazione oramai logoro della politica con la società. La risposta non può essere la replica di ciò che già conosciamo: serve un processo nuovo, capace di coinvolgere anche chi in questi anni si è tenuto distante dalla partecipazione. In questo cammino i partiti devono assumere un ruolo guida, essere comunità che organizza, forma gruppi dirigenti e tiene aperto il dialogo. Ma anche la società lucana è chiamata a una scelta: non restare spettatrice, non limitarsi alla denuncia, ma partecipare, esporsi, mettere in campo le proprie energie, competenze, intelligenze civiche. Un progetto di alternativa può nascere solo se ciascuno si riconosce parte della sfida. Solo così diventa patrimonio comune.

Non basterà cambiare il linguaggio, non basterà aggiornare i programmi, non basterà trovare un nuovo equilibrio tra sigle. La domanda che viene dal basso è più semplice e più esigente: la politica lucana è disposta a ripensare se stessa per cambiare la Basilicata?

Se la risposta sarà sì, allora la discussione che penso abbiamo avanti a noi potrà essere ricordata come l’inizio di una stagione nuova. Se dovessero prevalere ancora logiche di corto respiro, lo dovremo riconoscere con sincerità: non avremo mancato solo un passaggio politico, ma un’opportunità storica per orientare il futuro della nostra comunità.

Carlo Rutigliano